Il 28 luglio 2010 è accaduto qualcosa di davvero memorabile: l’Assemblea Generale dell’ONU, riunitasi a New York, ha approvato una risoluzione che ha riconosciuto l’accesso all’acqua potabile e ai servizi igienico-sanitari tra i diritti umani fondamentali. Diritti. Umani. Fondamentali. Spettano alla persona in quanto essere umano, non sono dipendenti da una concessione dello Stato, rappresentano le condizioni essenziali per una vita dignitosa. Ma le cose sono davvero cambiate dopo quella decisione? A giudicare dai dati mondiali sulla possibilità di utilizzo di acqua pulita, non si direbbe: più di 840 milioni di persone al mondo, praticamente un individuo su nove, non hanno accesso all’acqua potabile sicura, e 2,3 miliardi – una persona su tre – non hanno accesso ai servizi igienici. È stimato che entro il 2025 metà della popolazione globale vivrà in aree soggette a stress idrico, che si presenterà sotto forma di siccità, alluvioni e altri fenomeni critici. In alcune aree del pianeta, come in Sudafrica e in Brasile, questi avvenimenti già stanno decimando le popolazioni locali. Quanti morti e ammalati bisogna mietere ancora, prima che si trovi una vera soluzione al problema?

 

L’acqua è un bene di inestimabile valore, esauribile, fonte di vita per l’individuo e di sviluppo per la comunità. Laddove l’acqua è inquinata e non potabile, non solo non ci si può dissetare, ma non si riesce nemmeno a garantire gli standard minimi di igiene e salute, né tantomeno proseguire le attività agricole e di allevamento necessarie alla sopravvivenza di alcuni territori.

Per quel che ci riguarda, in Italia la situazione non è affatto rosea: il numero di persone che rischiano di non aver accesso all’acqua è stimato, nel 2017, in circa 4 milioni. Le principali città italiane sono sempre più colpite da crisi idriche e disastri ambientali legati all’acqua. In particolare, in Campania si parla sempre più di «emergenza acqua», il rischio di chiusura dei rubinetti è di giorno in giorno più elevato; molti comuni stanno già contingentando le risorse. Gran parte delle acque contenute nei fiumi e laghi italiani superano ampiamente i limiti massimi di pesticidi; particolarmente allarmante è la presenza dell’erbicida glifosato in Lombardia e delle sostanze chimiche PFAS in Veneto. Una realtà drammatica, strettamente legata ai processi di mercificazione e privatizzazione dell’acqua, che da decenni martoriano le popolazioni di tutto il mondo. Ristrette élites hanno fatto sì che l’acqua divenisse un vero e proprio business: un bene reificato, tassato, commercializzato, esclusivo. Altro che fonte di vita, è una fonte di guadagno! In Italia e nel mondo l’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua è stato spacciato come una grande opportunità di apporto di capitali da parte di quest’ultimi, che avrebbero reso il servizio più efficiente, ristrutturato le reti e costruito innovativi impianti di depurazione. E grazie al mercato e alla concorrenza, il tutto sarebbe stato più economico per i cittadini. Ma la realtà è ben diversa: le tariffe e le perdite delle reti sono aumentate, gli investimenti sono diminuiti, e l’Italia è sotto procedura d’infrazione da parte dell’UE per l’inadeguatezza del trattamento delle acque reflue.

Le quattro “sorelle dell’acqua” (IREN, A2A, ACEA, HERA), le grandi società multi-utility quotate in borsa, tra il 2010 e il 2014 hanno distribuito oltre 2 miliardi di euro di dividendi ai propri soci, addirittura oltre 150 milioni in più degli utili prodotti nello stesso periodo; ACEA ATO 2 S.p.A. tra il 2011 e il 2015 ha distribuito, in media, come dividendo ai propri soci (quasi esclusivamente ACEA S.p.A.) il 93% degli utili prodotti, circa 65 milioni di euro l’anno, per poi ottenere dalla stessa ACEA S.p.A. dei finanziamenti a tasso di mercato che utilizza per fare investimenti. Intorno all’acqua girano tantissimi soldi, non sono utilizzati per effettuare gli investimenti e garantire un servizio sociale essenziale, come promesso, bensì per arricchire gli azionisti pubblici e privati. A cosa sono serviti i 26 milioni di “No” al Referendum sull’Acqua del 2011? Le risorse idriche italiane continuano ad essere gestite da ristrette oligarchie, e assoggettate alle regole del mercato.

 

Per non parlare, poi, dell’Iniziativa Europea dei Cittadini (ICE) del 2013, allegramente ignorata dalla Commissione UE. Con più di un milione e ottocentomila firme, si richiedeva di riconoscere, sul piano legislativo, l’accesso all’acqua potabile ed ai servizi igienico sanitari come un diritto umano, e di introdurre modalità di partecipazione effettiva dei cittadini alla politica e alla gestione dell’acqua. La Commissione europea ha pensato bene di snobbare i suoi cittadini rispondendo che fino ad allora si era impegnata proprio in quella direzione, aveva cioè perseguito efficacemente l’obiettivo di consentire l’accesso all’acqua potabile di buona qualità al più grande numero possibile di persone. Non a tutti, ma al più grande numero possibile. E nessuna parola riguardo il riconoscimento legislativo del diritto all’acqua, obiettivo per il quale, invece, tanti europei avevano esplicitamente firmato. Ancora oggi la Commissione pare esser sorda: non solo continua imperterrita a far capire che del diritto all’acqua non gliene importa niente, ma dimostra la sua contrarietà a tale diritto. Dalla recente proposta di revisione della direttiva sull’acqua potabile, infatti, si percepisce come faccia comodo che essa sia sempre più prigioniera del dogma mercantile e capitalista finanziario, secondo cui il finanziamento dei costi dell’accesso all’acqua potabile deve venire dal prezzo (detto “abbordabile”) pagato dai consumatori ai gestori (privati). L’estensione dell’accesso all’acqua potabile alle fasce impoverite e a basso reddito della popolazione europea non può sfuggire all’obbligo del pagamento della tariffa, anche se ridotta. L’acqua deve essere accessibile ai più, mica un diritto. E la regola è che se non paghi, non bevi!

Questa è l’espressione tristemente palese di una società fondata sull’ineguaglianza tra esseri umani, le comunità ed i popoli, e sulla carità dei gruppi sociali dominanti verso quelli impoveriti, arricchitisi proprio a loro danno. E più le società sono ingiuste e ineguali, più le oligarchie tendono a far ricorso alle tariffe sociali, ai bonus, alle misure assistenziali, straordinarie, a tempo determinato, intrinsecamente aliene ad una concezione ed una pratica sociale della società fondata sul riconoscimento e la concretizzazione universale dei diritti.

 

Coerentemente con quanto sopra, le istituzioni, a tutti i livelli, si stanno impegnando sempre meno verso la sensibilizzazione dei cittadini al consumo critico dell’acqua e della plastica che la contiene. A tutela della propria immagine, non certo del benessere generale, molti enti statali ed europei dichiarano solennemente di cimentarsi in campagne d’informazione collettiva sulla qualità dell’acqua di rubinetto, la sua disponibilità negli edifici della pubblica amministrazione, ecc., ma alla luce di questo presunto impegno, dovremmo dedurre che, da oggi in poi, l’acqua in bottiglia sparirà dalle sale riunioni, le aule assembleari e i punti d’incontri aperti in tutti gli edifici della Commissione, del Parlamento europeo, delle Regioni, dei Comuni e altre collettività locali? Una bella presa in giro.

Facciamo sempre più un cattivo utilizzo delle risorse idriche domestiche. Negligenza principalmente dipesa dall’erronea percezione che l’acqua sia una risorsa illimitata. Bisogna agire al più presto anche in questa direzione. È necessario informare, sensibilizzare ed educare l’opinione pubblica ad un corretto utilizzo dell’acqua. La disponibilità idrica in quantità e qualità globalmente sufficienti è strettamente legata al pieno godimento della vita e di tutti i diritti umani. Questa presa di coscienza costituirebbe la condizione preliminare per uno sviluppo sostenibile globale, improntato a principi di giustizia e pacifica convivenza.

 

Costruire insieme un futuro più sostenibile e giusto, a partire dal tema Acqua, è possibile. È proprio in questa direzione che si sta muovendo Riccardo Petrella, ideatore del museo-laboratorio sul diritto all’acqua, inaugurato lo scorso 10 marzo a Roma. Si tratta di un’iniziativa lanciata da un gruppo di attivisti impegnati nella diffusione di una nuova cultura del diritto all’acqua in quanto bene comune, il cui costo dovrebbe essere preso in carico dalla collettività intera, attraverso la fiscalità. Il MUS-LAB si offre come spazio sociale partecipato di ricercatori, organismi della società civile e istituzioni pubbliche, aperto a chiunque si impegni in difesa dei diritti umani. Le sue tre funzioni principali vogliono essere: sensibilizzazione e coscientizzazione dei cittadini; analisi e dibattito della situazione attuale; proposte e mobilitazioni per migliorare la vita di tutti. I lavori del museo-laboratorio sono rivolti al mondo dell’educazione e dei giovani, alle popolazioni impoverite ed escluse, ai media e ai poteri pubblici.

È tempo di cambiare rotta: studiamo i nostri diritti e chiediamo che siano rispettati. L’acqua è e deve essere un diritto inalienabile universalmente godibile. Opponiamoci alla tendenza attuale: non può essere una merce tassabile, proprietà di una ristretta oligarchia, in balia delle maree del mercato.

 

*Guido Barbera è il Presidente del CIPSI un coordinamento nazionale, nato nel 1982, che associa 32 organizzazioni non governative di sviluppo (ONGs) ed associazioni che operano nel settore della solidarietà e della cooperazione internazionale. Il CIPSI è nato con la finalità di coordinare e promuovere, in totale indipendenza da qualsiasi schieramento politico e confessionale, Campagne nazionali di sensibilizzazione, iniziative di solidarietà e progetti basati su un approccio di partenariato. opera come strumento di coordinamento politico culturale e progettuale, con l’obiettivo di promuovere una nuova cultura della solidarietà.

 

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