Il giorno dopo, all’alba, tutta Fontamara fu in subbuglio per un malinteso.

All’entrata di Fontamara, sotto una macera di sassi, sgorga una povera polla d’acqua, simile a
una pozzanghera. Dopo alcuni passi, l’acqua scava un buco, sparisce nella terra pietrosa, e riappare
ai piedi della collina, più abbondante, in forma di ruscello. Prima di avviarsi verso il piano, il
ruscello col suo fosso fa molti giri. Da esso i cafoni di Fontamara han sempre tratto l’acqua per
irrigare i pochi campi che possiedono ai piedi della collina e che sono la magra ricchezza del
villaggio.

Per spartirsi l’acqua del ruscello ogni estate fra i cafoni scoppiano spesso liti furibonde. Negli
anni di maggiore siccità, le liti finiscono talvolta a coltellate; ma non per questo l’acqua aumenta.
In quella stagione da noi si usa che, al mattino presto, alle tre e mezzo o alle quattro, essendo
ancora buio, gli uomini si alzano, bevono un bicchiere di vino, caricano l’asino e in silenzio
prendono la via del piano. Per non perdere tempo e arrivare prima che il sole sia alto, la colazione si
fa per strada; la colazione? un tozzo di pane con una cipolla, o con un peperone, o con una crosta di
formaggio.

Ora avvenne che gli ultimi cafoni di Fontamara, i quali alla mattina del due giugno scesero la
collina per andare al lavoro, s’incontrarono al piano con un gruppo di cantonieri, arrivati dal
capoluogo con pale e picconi per deviare l’acqua (secondo quello che essi dissero), per allontanare
il misero ruscello dai campi e dagli orti che aveva sempre irrigato, sempre, a memoria d’uomo, e
per avviarlo nel senso contrario, in modo da obbligarlo a costeggiare dapprima alcune vigne e a
bagnare infine delle terre che non appartenevano ai Fontamaresi, ma ad un ricco proprietario del
capoluogo, don Carlo Magna. Costui appartiene a una delle più vecchie famiglie della nostra
contrada, ora, per colpa sua, assai decaduta, ed è chiamato così perché alla domanda: «Si può
parlare con don Carlo? È in casa don Carlo?» la serva risponde, per lo più: «Don Carlo? magna. Se
volete», aggiunge sempre «potete parlare con la padrona». In quella casa, infatti, adesso chi
comanda è la donna.

[…]

Scherzi simili, come ognuno capisce, non si dimenticano facilmente, anche se gli sfaccendati del
capoluogo s’incaricano di giuocarcene sempre di nuovi. Perciò noi pensammo che la deviazione del
ruscello probabilmente fosse una nuova beffa.

Infatti, sarebbe proprio la fine di tutto, se il capriccio degli uomini cominciasse a influire perfino
sugli elementi creati da Dio, cominciasse a deviare il corso del sole, il corso dei venti, il corso
dell’acqua stabiliti da Dio. Sarebbe come se ci avessero raccontato che gli asini stavano per volare;
o che il principe Torlonia stava per cessare di essere un principe; o che i cafoni stavano per cessare
di patire la fame; in una parola, che le eterne leggi di Dio stavano per cessare di essere le leggi di
Dio.

Ma i cantonieri, senza altre spiegazioni, avevano messo mano alle pale e ai picconi per scavare il
nuovo letto dell’acqua.

Allora lo scherzo sembrò oltrepassare i limiti. Un ragazzo, il figlio di Papasisto, tornò su, a
Fontamara; allarmò ognuno che trovò per strada.

«Bisogna correre, provvedere subito» ripeté affannosamente a ognuno. «Bisogna avvertire i
carabinieri, avvertire il sindaco, giù, nel capoluogo, al più presto.» Di uomini a spasso, in paese non
ce n’erano. Nel mese di giugno gli uomini han troppo da fare con la campagna. Dovevano andare le
donne. Ma con le donne successe questo – voi sapete come siamo – il sole era già alto e ancora non
eravamo in cammino.

Tutto il paese fu messo a rumore; le donne si ripetevano la notizia da un vicolo all’altro; anche
quelle che già sapevano di che si trattava, se lo facevano ripetere dieci volte da ognuno che passava
davanti alla loro porta; però nessuna si muoveva.

[—]

«Ci vogliono rubare l’acqua.» «È un sacrilegio mai visto. Un’azione da capestro.» «Ma piuttosto
diamo il sangue che l’acqua delle nostre terre.» «Se non c’è più giustizia, ce la facciamo da noi.»
«Dov’è il sindaco?» «Il sindaco» si mise a gridare il capo della pattuglia. «Ma non sapete che non
esistono più sindaci? Adesso il sindaco si chiama podestà.» A noi era del tutto indifferente come si
chiamasse il capo del comune. Ma per la gente istruita la differenza doveva essere grande,
altrimenti poco prima gli impiegati non ci avrebbero tanto deriso alla nostra richiesta di parlare col
sindaco e il maresciallo dei carabinieri non sarebbe diventato così furioso.

[—]

Per Fontamara significava la fame perché i prodotti delle altre poche terre da noi affittate o
possedute bastavano normalmente per pagare le tasse, l’affitto e le altre spese, mentre i prodotti dei
campi irrigui ci fornivano l’alimentazione, pane di granoturco e minestra di legumi. Il furto
dell’acqua ci condannava a un inverno senza pane e senza minestra. Era una cosa possibile?

Nessuno di noi cercava neppure di assuefarsi a una simile idea. Ma a chi ricorrere? L’imbroglio dei
dieci lustri, venuto dopo l’imbroglio dei tre quarti e tre quarti, aveva aperto gli occhi anche ai
ciechi. In quelle due occasioni noi eravamo stati ingannati a regola d’arte dall’uomo al quale
avevamo sempre affidato la tutela dei nostri interessi. Noi non potevamo dunque contare su
nessuno. Non è facile spiegare quello che ciò significava per noi, come paese oltre che come
persone.

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