L’acqua è ciò che rende uguali. Nostro principale costituente, nostro imprescindibile bisogno.

Privare qualcuno dell’acqua non significa solo condannarlo a morte certa. Vuol dire togliergli anche la dignità di essere umano, umiliandolo, condannandolo alla malattia e alla sete.

Niente ci accomuna, nemmeno il fatto di essere fatti della stessa acqua.

Acqua del Lago di Tiberiade, acqua del Giordano, acqua dell’“Acquifero costiero” di Gaza, acqua dell’ “Acquifero della Montagna”, nella West Bank. Acqua del Mediterraneo, desalinizzata dai 5 impianti di Soreq, Hadera, Ashkelon, Ashdod e Palmachim.

Acqua estratta e distribuita dalla compagnia idrica d’Israele, la Mekorot, la quale rifornisce gli insediamenti dei coloni, ma impedisce alle famiglie dei pastori palestinesi di allacciarsi all’acquedotto. Come si legge nel nuovo rapporto “Thirsting for justice. Palestinian access to water restricted” di Amnesty International, “Israele utilizza oltre l’80 percento dell’acqua proveniente dal Mountain Aquifer (un “serbatoio” sotterraneo che si estende, in profondità, per una lunghezza di 130 chilometri), l’unica fonte d’acqua per i palestinesi in Cisgiordania”.

Israele, al contrario, dispone di altre fonti ed ha accesso alle acque del fiume Giordano.

Il consumo pro-capite di acqua della popolazione palestinese è di poco inferiore ai 70 litri al giorno, mentre in Israele il consumo supera i 300 litri al giorno: quattro volte tanto. In alcune aree rurali i palestinesi sopravvivono con appena 20 litri di acqua diari, quantità che corrisponde al fabbisogno giornaliero minimo raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità in situazioni di emergenza.

Dimenticata nella storia quella Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, adottata all’unanimità dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre del 1948 e nata proprio per evitare che lo sterminio di un popolo potesse accadere di nuovo.

Persi nel vento gli Accordi di pace di Oslo del 1995, i cui obiettivi vertevano su un utilizzo equo dell’acqua per entrambe le popolazioni.

Ignorati i rapporti annuali dell’Ufficio centrale di statistica palestinese (Pcbs) e dell’Autorità idrica palestinese (Pwa), nei quali è riportato che i palestinesi di Gaza avevano accesso, nel marzo dell’anno scorso, a soli 3-15 litri d’acqua al giorno pro capite.

Inascoltati i rapporti delle organizzazioni internazionali, come il Water War Crimes Report di Oxfam, che denuncia questa privazione dell’acqua come una violazione del diritto internazionale umanitario e delle norme internazionali in materia di diritti umani, o gli allarmi dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per la crescente mortalità per dissenteria e infezioni, a causa di un accesso all’acqua che per 1,4 milioni di persone a Gaza si è ridotto del 93%.

Senza contare le denunce di ciò che sta accadendo in Cisgiordania, dove accanto ai sistemi automatizzati che riempiono le piscine israeliane, i palestinesi assistono alla distruzione delle loro cisterne e dei sistemi di irrigazione, subendo addirittura il divieto di raccogliere l’acqua piovana.

Ora cosa resta? Un’aridità umana che ha ben pochi precedenti.

Quando l’85% delle stazioni di pompaggio delle acque reflue e 180 chilometri di reti idriche sono già stati distrutti a causa dei bombardamenti, disperdendo al suolo il 60% dell’acqua disponibile, è urgente e umanamente doveroso concordare un cessate il fuoco permanente e pretendere che Israele sostenga i costi di riparazione e ricostruzione delle infrastrutture idriche e igienico-sanitarie danneggiate nei territori palestinesi, da ben prima del 7 ottobre.

Quando i 450.000 coloni consumano la stessa quantità di acqua utilizzata da 2,3 milioni di palestinesi, vuol dire che forse è necessario rivedere interamente la narrazione mainstream.

E quando, pur di non permetterne alcun uso, uno Stato arriva a gettare tonnellate di cemento all’interno di un pozzo, è evidente che, al di là di ogni disgusto, indignazione e rabbia, ancora una volta è stata denigrata la Vita.

14 aprile 2025, Firenze

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