Nell’aprile scorso, in Kenya, la scrittrice e ambientalista Kuki Gallmann è stata ferita gravemente in un agguato che gli è stato teso da pastori nomadi alla ricerca di acqua e pascoli per il bestiame. Il fatto ha avuto un certo risalto solo perché riguardava un personaggio piuttosto noto che si è potuto guadagnare un paio di giorni di articoli di colore. La cosa è finita li, perché si sa, ci sono notizie che sono meno notizie di altre.

Quanto successo a Kuki Gallmann è quello che accade da sempre in Africa subsahariana, nella cosiddetta guerra per l’acqua, con tensioni che negli ultimi anni sono, se possibile, ancora più acute per il più grande stato di siccità che incombe sull’intera area per i cambiamenti climatici e le oscillazioni di El Niño che da una parte provocano nubifragi devastanti e inondazioni e dall’altra desertificazione e carestie.

Nel mondo sono in corso molte guerre per il controllo dell’acqua; se ne parla ciclicamente quando aumentano le tensioni o capitano fatti eclatanti.

Tra israeliani e palestinesi per le acque del Giordano e dei pozzi della Cisgiordania dove pure sono coinvolti libanesi, giordani e siriani.

Sul Fiume Omo e intorno al Nilo, tra Paesi confinanti, per la costruzione della diga più grande del continente africano che sbarrerà le acque che sono motivo di tensione da sempre tra Egitto, Etiopia e Sudan.

Tra Turchia, Siria e Iraq lungo il Tigri e l’Eufrate; tra Kazakhstan, Kyrgyzstan e Uzbekistan, attraversate dal Syr Daya; tra Cambogia, Laos, Vietnam e Thailandia, per il Mekong.

Questa lista potrebbe essere molto più lunga; ciò che maggiormente mi interessa è però parlare della lotta per l’acqua giornalmente affrontata, nel silenzio e nell’indifferenza generali, da oltre un miliardo di persone che possono disporre di meno di cinque litri d’acqua al giorno (ne sarebbero necessari almeno venti per poter sperare in una vita più accettabile).

La conclamata correlazione fra la povertà e la mancanza d’acqua e di servizi igienici ha indotto le Nazioni Unite a dichiarare la risorsa idrica un diritto essenziale per lo sviluppo dell’uomo. Senza buona acqua vengono meno la salute e l’energia necessarie ad affrontare la vita, e a pagarne le conseguenze, fisicamente, culturalmente e socialmente, sono le donne e i bambini impegnati avanti e indietro con secchi e taniche, per ore, ogni giorno, come animali da soma.

Se solo ci focalizziamo sul Corno d’Africa e dintorni, tra la Somalia, il sud est dell’Etiopia, la parte nord del Kenya e dell’Uganda, calcolate per difetto, ci sono 17 milioni di persone in una situazione di emergenza e ad altissimo rischio di morte per fame.

In Kenya la situazione è particolarmente critica in molte contee, mentre le persone già colpite direttamente sarebbero quasi tre milioni con il 20% della popolazione in uno stato di malnutrizione molto serio e situazioni altrettanto gravi in tutta la parte nord orientale abitata da somali e da allevatori di antiche etnie ognuna delle quali impegnate strenuamente in questa lotta per la sopravvivenza, tanto da rendere fragilissimo l’equilibrio fra i vari gruppi.

L’instabilità politica è endemica ed è accompagnata da una preoccupante radicalizzazione soprattutto tra i giovani di religione musulmana.

Non si tratta infatti solo di El Niño. Altrettanto rilevanti nel far precipitare la situazione sono i conflitti e l’instabilità che hanno causato il collasso economico di vaste aree e masse di profughi. Non a caso, le situazioni più drammatiche sono quelle del Sud Sudan, dove la catastrofe alimentare è già conclamata, della Somalia e della Nigeria. Questi paesi sono anche devastati da annosi conflitti – la guerra civile in Sud Sudan e l’instabilità dovuta agli attacchi dei gruppi islamisti in Somalia e in Nigeria – che impedendo ogni minima avvisaglia di sviluppo, hanno determinato uno stato di estrema povertà e hanno impedito di gestire in maniera condivisa e sostenibile le risorse strategiche come l’acqua e il legname.

Particolarmente drammatica è la perdita di migliaia di capi di bestiame, assetati e affamati oltre ogni limite, che ha spinto molti allevatori al suicidio, lo stesso gesto estremo e disperato registrato qui da noi durante la recente crisi economica, dimostrazione lampante di come la natura dell’uomo sia la stessa a tutte le latitudini. Migliaia di animali morti e una economia a picco sono segnali inequivocabili di un’imminente carestia.

Che dire poi dell’Asia, il continente con i consumi più elevati per la rapidissima crescita di questi ultimi anni che non è riuscita ad adottare precise strategie altrimenti determinanti per qualsiasi paese. Più cresceranno gli indici economici e la prosperità delle persone, più crescerà la domanda di beni che necessitano di grandi quantità d’acqua per la loro produzione. Per questo le nazioni emergenti avranno sempre più bisogno d’acqua in forma diretta e indiretta attraverso i prodotti industriali e agricoli importati insieme alle materie prime dall’Africa stessa e dal Sud America.

Il cambiamento degli stili di vita ha indotto consumi sempre più elevati trasformando l’accesso all’acqua potabile in uno dei problemi principali per queste popolazioni in forte crescita anche dal punto di vista demografico, innescando una spirale che sembra essere senza fine. L’aumento del reddito pro capite ha comportato maggiori consumi di carne la cui produzione richiede in media un utilizzo d’acqua dieci volte maggiore rispetto alle calorie e alle proteine della dieta più povera fin qui sostenuta loro malgrado ma sostanzialmente vegetariana. Per questo, anche l’aumento rapido a livello globale del consumo di carne sta diventando di per sé una delle cause principali delle difficoltà legate all’acqua e l’impronta ecologica diretta del bestiame è più grande di quella della popolazione umana.

La domanda di acqua per energia, agricoltura e usi domestici sarà destinata a crescere inevitabilmente e le tensioni potranno presto riguardare anche le falde acquifere, perché circa il 99% dell’acqua dolce del pianeta si trova immagazzinata nel sottosuolo e il 40% dell’umanità si procura l’acqua per vivere attingendo proprio a queste riserve sotterranee.

Per questo la gestione dell’acqua, oltre ad essere un problema ambientale, è allo stesso tempo e a tutti gli effetti un tema globale di carattere economico destinato a diventare sempre più pressante col passare degli anni. Tema a cui la parte ricca del Mondo ha cominciato a guardare con una certa apprensione solo da pochi anni, non per queste argomentazioni ma soprattutto per i forti squilibri indotti dai cambiamenti climatici e dai disagi che le nostre società cominciamo a dover sopportare.

Per fare notizia, non sono abbastanza spettacolari i migliaia di morti causati dal colera quest’ultimo anno in Yemen, dove si muore non solo per le bombe ma anche per i loro effetti collaterali che arrivano a bersaglio con la precisione e tutte le conseguenze di una vera e propria arma batteriologica.

Figuriamoci come potrebbero fare notizia gli El Molo, poco più di un centinaio di pescatori che vivono lungo le sponde del Lago Turkana, la cui comunità è stata decimata da questa stessa infezione.

Eppure, già alla metà dell’800 si fu in grado di ipotizzare che il colera e la gran parte delle malattie gastrointestinali fossero dovute alla contaminazione fecale dell’acqua.

Nell’estate del 1854 un’epidemia di colera scoppiò nel quartiere di Soho a Londra causando la morte di più di 600 persone. Un medico notò che più di 500 casi furono denunciati all’interno di un’area di poco più di 200 m di raggio dove si trovavano i pozzi pubblici più frequentati e fu in grado di ricostruire una carta della città (quella che oggi viene chiamata la mappa dei fantasmi) che mostrava chiaramente lo sviluppo tendenziale della malattia in rapporto alla presenza dei pozzi contaminati.

Questo a dimostrare quanto sarebbe importante lo studio della circolazione dell’acqua nel sottosuolo. Quanto l’idrogeologia potrebbe essere determinante e addirittura decisiva per lo sviluppo dei programmi di salute pubblica, specialmente dei paesi sottosviluppati dove non sono presenti rete fognarie e si è costretti ad approvvigionarsi da acque superficiali e pozzi non protetti. Situazioni già in partenza fragili che diventano di assoluta criticità in caso di tensioni sociali o guerre (il caso dello Yemen è quello più attuale e terribile).

 

Fin dalle prime missioni in Africa ho avuto modo di confrontarmi con medici, compagni di strada a volte casuali, i quali, tutti, hanno sempre sostenuto l’inutilità della loro azione senza un contestuale miglioramento delle condizioni d’accesso all’acqua e della sua qualità.

Nel 2018 saranno passati dieci anni dal giorno della fondazione di Acquifera.

Dieci anni di impegno costante per cercare di valorizzare la nostra professionalità attraverso l’idrogeologia, proprio là dove ce n’è maggiore bisogno e dove l’applicazione di tecniche e conoscenze specifiche per ottimizzare i risultati, sia in termini qualitativi che quantitativi, può risultare realmente decisiva.

In questi anni abbiamo avuto modo di lavorare in Camerun, Etiopia e Kenya, in Burkina Faso e Sahara Occidentale e in Bolivia, potendo toccare con mano la dura realtà di questi paesi. Tra mille difficoltà abbiamo cercato di fare la nostra parte muovendoci da cenerentole nel mondo della Cooperazione internazionale e credendo con convinzione che sia necessario conoscere l’acqua e i suoi meccanismi per difenderla e amministrarla in maniera democratica. Credendo sia necessario almeno provare a sparigliare le carte per proporre e sviluppare procedure di lavoro diverse. Che garantire i diritti delle persone e delle popolazioni per gestirla in maniera partecipata e condivisa rappresenti il punto di partenza per creare condizioni di pace durature. Perché l’acqua, per sua natura, travalica i confini e scorre senza sosta sulla nostra ribollente umanità, perdendo la sua purezza, giorno dopo giorno, irreparabilmente. Se continuiamo su questa strada sarà sempre meno l’acqua che potrà essere disponibile.

Gli scenari attuali però ci mostrano situazioni sempre più parossistiche legate, da una parte, all’inarrestabile crescita demografica e, dall’altra, ai cambiamenti climatici che ci prospettano un futuro nel quale l’acqua sarà sempre di più motivo di tensioni e conflitti, a meno che non si inverta con decisione la marcia e si impari realmente a preservare questa risorsa vitale e a condividerla con i nostri vicini. Speriamo che finalmente anche per l’Italia sia arrivato il momento della consapevolezza, con i postumi della grande sete che la scorsa estate ha colpito l’intero paese mettendo a nudo le numerose criticità dei nostri modelli di gestione. Speriamo che questa recente esperienza che ha messo in dubbio tante nostre certezze sia stata sufficiente per convincerci ad affrontare il problema con maggiore coscienza e serietà.

 

Giancarlo Ceccanti

Testo pubblicato sul numero 515-516-517 della rivista Testimonianze

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